Note sul tema della “comunicazione”
in Danilo Dolci e in Paulo Freire di Giovanni Battaglini
Freire, intervenendo nel dibattito promosso da Dolci con la “Bozza di Manifesto – dal trasmettere al comunicare”, si dichiara d’accordo con le tesi esposte : la comunicazione si fonda sull’intersog-gettività, sulla reciprocità, sull’esplicazione delle proprie potenzialità creative, anche nell’esperienza; potere non significa dominio.
Freire aggiunge: “La conoscenza può avere momenti di trasmissione, purchè alimentino la comunicazione”. “ Spaventato” dai “comunicati ricevuti in forma passiva da milioni di persone”, afferma che è urgente lottare per costruirla, “reinventando il mondo attraverso la sua radicale trasformazione”.
Dolci, a Bologna nel ’96, propone un “nuovo fronte della stessa Università che vuole pervenire concretamente alla civiltà del dialogo tra persone e genti che imparino a sperimentare creative”, oltre le “inoculazioni pur elettroniche”; propone di muovere anche dalle forme più semplici di aggregazione e di vita : “ Il comunicare richiede che tra due o più persone, ognuno sia creativo nell’ascoltare-interpretare come nell’esprimersi non solo verbalmente”.
Il discorso dei due autori resta aperto e attuale, soprattutto nelle linee operative.
Ulteriori rilievi sul tema della “comunicazione” in Danilo Dolci
A distanza di tre anni dalla morte di Danilo Dolci, ripensando alle tante sue opere, appaiono ricorrenti alcune parole–chiave, alcuni argomenti a lui cari, approfonditi nel tempo con il contributo dei partecipanti ai vari “laboratori maieutici”, in cui ognuno poteva esprimere liberamente le proprie istanze, senza remore o censure, a prescindere dal grado di istruzione e dal livello di età.
Si delinea così, in questo rinnovato dialogo socratico, un ambito particolarmente vissuto dal nostro autore, soprattutto nelle strutture scolastiche e sociali in genere : l’ambito socio – emotivo, oggi sacrificato dalle moderne tecnologie e dalla logica del “profitto ad oltranza”. Danilo muove , nel tempo, dall’ esigenza primaria di sopravvivenza dei “poveri cristi” della sua Sicilia, per coinvolgere tutti, perché il discorso della nonviolenza, promosso da lui, può essere vincente solo se affrontato con respiro planetario, oltre ogni ghettizzazione che porta ad eludere i problemi di fondo.
In quest’ottica, Dolci muovendo dai conflitti degli “ultimi”, dalle loro lotte per le conquiste dei diritti fondamentali come il diritto al lavoro, alla cooperazione tra uomini liberi per costruire strutture necessarie per una esistenza più umana, dalla diga sullo Jato al Centro educativo di Mirto, contro il dominio della mafia , pagando di persona con i digiuni e anche con il carcere, raggiunge varie parti del mondo e fa esperienze nuove, sempre dalla parte dei più deboli. Uno dei temi di fondo, ricorrenti di continuo nelle sue pagine, resta il problema del “comunicare”, inteso come “legge di vita”, come “ germe musicale”, come “palpitare di nessi” tra “creature”.
Nell’orizzonte proposto da Dolci, il termine “comunicare” assume pertanto nuovi significati, arricchendosi dei contributi provenienti dal dialogo maieutico.
Nell’opera La comunicazione di massa non esiste del 1987, comunicare significa soprattutto “avere in comune”, “condividere”, “sopportare insieme”. “Communico”, nel significato originario evidenziato nella scrittura latina, vuol dire anche, secondo il nostro autore, “ rendo partecipi gli altri di munus ”, inteso nei suoi molteplici aspetti; munus è dono, è compito, è servizio, è gentilezza, è consiglio, è accordo. Di conseguenza, a volte, appare assurdo, o per lo meno improprio, parlare oggi di comunicazione nell’ambito in cui viviamo.
Comunicare è attività, che, nel dialogo maieutico, manifesta, talvolta, un interesse vitale: un essere ch’è tra noi e che qualifica la nostra esistenza. Si tratta di una tensione spirituale che si cala nel corpo, nelle cose, che si rinnova in un processo continuo di reciprocità creativa.
Comunicare legge della vita è opera che appare in sesta edizione rinnovata nel 1997, nell’anno stesso della sua scomparsa, e che quindi resta testimonianza di un dialogo e di una ricerca aperta, che pare continuare anche dopo questa, almeno nei desideri più vissuti e sofferti .
La meditazione del termine legge, come qui viene concepito, ci porta direttamente a quanto scritto a proposito da Immanuel Kant, alla sua legge morale che ci impegna nella nostra interiorità, anche se aderiamo ad essa liberamente.
E’ opportuno qui ricordarla nella sua forma più nota: “Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre come scopo e non come mezzo”. Nell’attività di Dolci, si avverte costante tale istanza fondante l’esperienza del comunicare. La comunicazione è quindi concepita come crescita infinita con gli altri, operanti in interazione creativa. Oltre Socrate, oltre Kant, v’è però nel nostro autore sempre l’esigenza di sperimentare, in prima persona, le ipotesi teoriche, rischiando anche conflitti insanabili e delusioni.
La legge del comunicare è pure germe musicale: nel rapporto creativo maieutico, ciascuno, pur nella propria diversità, spesso tende ad entrare in armonia con l’altro, con il tutto, in un rapporto empatico profondo. La musica sorge dal “sapersi ascoltare”, è animatrice della nostra legge interiore, perché porta l’intima forza d’amore a divenire cosmica, conciliando pure la dinamica degli elementi contrari. La musica è “nutriente” per la legge morale, ci porta a collaborare, a vivere onestamente, a sperare, nonostante tutto. La musica pare per Danilo, come per Schopenhauer, linguaggio dell’essere inteso come voluntas universale, che tutto anima e travolge, che porta dolcezza e distruzione ad un tempo. Non a caso, nell’opera del nostro autore, appaiono anche riferimenti alla tragedia greca, a fatti che lacerano oggi l’umanità, nella loro irrazionale brutalità e che determinano, a volte, “ il trionfo della perfidia sul precipizio dei giusti”.
Nei volumi di Danilo Dolci, appare un altro termine ricorrente, che spesso è connesso con il “comunicare” e che merita particolare attenzione: il termine “creatura”. Danilo si rifà alla radice CRE, da cui muovono varie parole della nostra lingua:
da crescere a creare. La creatura è un essere che si “infutura” nel suo crescere, che comunica con altre creature nella sua insostituibile diversità. Come Francesco d’Assisi nel suo Cantico, egli non pensa solo a creature umane: creature sono tutti gli elementi dell’universo che vivono, che palpitano, che si evolvono: dalle piante alle stelle, all’acqua e al fuoco, al vento. Ritroviamo tale respiro cosmico nel “grande animale, vivente”, di cui tratta Giordano Bruno, e nella “corrispondenza di amorosi sensi”, cantata da Ugo Foscolo nei Sepolcri.
La creatura per Danilo vive negli altri, anche dopo la morte, pure nella “forza operosa che affatica le cose” di foscoliana memoria: pertanto, torna alla nostra mente anche la “communio” cristiana vissuta laicamente, oltre ogni fede dogmatica. Torna il Maestro che dà tutto se stesso, corpo e spirito, agli altri: “Mangiate e bevete, questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. Tutto questo non ha nulla in comune, secondo il nostro autore, con il “Dio delle Zecche”, inventato dai potenti per meglio sfruttare i più deboli.
E’ opportuno qui ricordare, in estrema sintesi, l’esperienza educativa necessaria per fare crescere la creatura ch’è in noi: “ Se l’occhio non si esercita, non vede / pelle che non tocca, non sa / se l’uomo non immagina, si spegne”. Questi tre versi, già apparsi nel 1986 in Creatura di creature, riappaiono nell’opera poetica Se gli occhi fioriscono anche nelle edizioni Martina, Bologna 1997, anno della morte di Danilo (p. 13). Essi vanno qui ricordati pure per evidenziare l’importanza del corpo nelle interazioni tra gli esseri umani e con tutto il mondo vivente. La radice VID di vedere va oltre il “guardare”: significa anche conoscere e sapere, penetrare nel tutto, per cogliere le strutture e il senso della vita.
Nell’opera Occhi ancora rimangono sepolti, del 1987, edita dal Centro internazionale della grafica di Venezia, Danilo parla di occhi che non vedono se non sono sollecitati dagli altri sensi, da tutto l’essere corporeo che palpita con gli altri corpi. Così le mani toccano altre mani per interrogare, per sollecitare una risposta. “Interrogare” va pertanto inteso come “chiedere tra”, chiedere reciprocamente insieme; “rispondere” va inteso nel suo senso originario di reagire ad un desiderio, di venire incontro a questo. Il “toccare” qui significa “stabilire un contatto reciproco” (da cumtangere): si tratta di un sentire scambievole che si allarga fino a cogliere il palpito dell’universo, che porta ad una coscienza più intima del tutto, necessaria alla comunicazione:
“ le tue dita / sapienti sanno sciogliere barriere velenose / a chi pensa” (p. 52). “Non si comunica che tutti interi, mi pare. Dalla pelle al cuore, alla mente. Se si stacca la pelle dalla pelle e dall’anima, si deperisce e si muore” (p. 17). E ancora : “Vagano sogni / vagano creature / ricercando la vita: la vita che possiedono / insaputa” (p. 59).
In Poema umano del 1974, come riporta Giuseppe Barone a p.54 del suo esauriente volume La forza della non violenza – Bibliografia e Profilo biografico di Danilo Dolci (Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2000), Danilo Dolci così si esprime:
“C’è pure chi educa, senza nascondere / l’assurdo ch’è nel mondo aperto ad ogni / sviluppo ma cercando / d’essere franco all’altro come a sé, / sognando gli altri come ora non sono : / ciascuno cresce solo se sognato”. Pertanto, nei processi educativi, non bisogna illudere, ma tentare di entrare nell’altro con una dinamica empatica, di vedere il mondo pure con gli occhi dell’altro, come già Husserl proponeva, per valorizzarlo nei suoi punti–forza, nelle sue aspirazioni, per viverlo e farlo vivere come “creatura”, attuando un “reciproco adattamento creativo”, “ognuno nel proprio sogno”, sogno animante una utopia praticabile, a volte.
Nel 1988, nell’opera Dal trasmettere al comunicare (Torino, Sonda) Danilo afferma, come pure ribadisce in Comunicare, legge della vita (Scandicci – Firenze, La Nuova Italia, 1997, p. 8 ) che il “comunicare autentico matura solo se e quando cresce almeno tra due creature una specifica interazione nel reciproco fecondarsi, non escludendo ma implicando contemplativamente il resto del mondo”.
A distanza di tre anni dalla sua morte, non possiamo non chiederci quanto si sia attuato delle sue proposte, nella scuola e nella società in cui viviamo. Il 13 maggio 1996, l’Università di Bologna conferisce a Danilo Dolci la laurea honoris causa in Scienze dell’educazione e nella sua breve “prolusione” così il nostro autore si esprime:
“Questa laurea si annuncia nuovo fronte della stessa Università che vuole pervenire concretamente alla civiltà del conflitto nonviolento creativo: alla civiltà del dialogo tra persone e genti che imparino a sperimentare creative” (da “Scuola e città” del 30.9.1996, ed. La Nuova Italia, Firenze.p. 407).
Chi vive l’ambito non solo universitario ma della scuola e della società di oggi non può non constatare che questa prospettiva è ancora molto lontana e che si sviluppano, invece, fenomeni della “comunicazione di massa” che Danilo afferma non autentica, perché “la pasta e la sabbia non comunicano”. E ancora: “La norma in cui esistiamo (non solo nella scuola trasmissiva e nella fabbrica, ma in ogni monopolio autoritario) perlopiù è malata, ci riduce, mutila”. (Ivi, p. 408)
E’ vero, tuttavia, che l’esigenza di comunicare permane e che siano sorti nuovi laboratori e nuove strutture maieutiche, anche nel nostro paese, anche se circoscritti nello spazio e fuori dalle istituzione ufficiali.
A proposito, lo stesso Danilo, in un suo articolo apparso su “Scuola e città” del 31.8.1990, (op.cit., p. 340 e p. 342), ci parla di nuclei di “resistenza attiva”, che, riproducendosi rapidamente, possono creare un tessuto vivente. Ed a coloro che sono presi da momenti di sconforto di fronte ai numerosi ostacoli che si frappongono a tale lavoro vitale, posti da parte di chi esercita il “dominio”, in forme sempre più ambigue, ricorda le parole di Platone, il quale in occasione del fallimento delle sue imprese in Sicilia, così afferma: “Questa mia scienza…. come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di sé medesima”.
Per questa esigenza interiore di libertà, sono inutili i lamenti e gli alibi. In tale orizzonte, anche ricerche recenti, come quella gia citata di Giuseppe Barone, acquistano valore di pressante invito a procedere nel cammino di lotta nonviolenta per realizzare al massimo la nostra più grande aspirazione di vita: essere sempre più liberi nel nostro esistere con gli altri, nella nostra irrepetibile e irrinunciabile diversità.
di Giovanni Battaglini
(Docente di Filosofia e Pedagogia nelle Scuole medie superiori, Modena)
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Ringraziamo l’Autore per la riproduzione del presente articolo, pubblicato nel volume “Atti del II International Forum Paulo Freire”, Ed. CLUEB – Bologna, 2002