Poetare è riuscire veramente a costruire

Approfondimento a cura di Amico Dolci

Ho visto i demoni di carne:
hanno gradi di caporale, di maresciallo, di comandante
sulle braccia, sulla testa, sulle spalle
e nascosti;
hanno sul petto grandi croci d’oro
pesanti anelli d’oro sulle dita
e dicono: io sono il superiore
voi dovete servire, essere quieti
e vi daremo tutti i nostri avanzi –
se ci ringrazierete.

E ho visto il popolo

mia piccolina
sei tutta profumata di sapone,

i tuoi capelli sono tanto fini
che li sento soltanto con i baci

che ha un cielo caldo in braccio, il cielo vivo:
il mondo che si nutre dei suoi figli.

Danilo Dolci, da Poema umano, Mesogea, 2016

Uno degli aspetti più importanti del pensiero e dell’opera di Danilo Dolci, che ne ha pervaso tutta la sua vita, è proprio la poesia, che per lui significa creare, fare. Forse non molti sanno che papà scriveva versi sin da giovanissimo: ma già dagli anni del dopoguerra, e sicuramente dopo Nomadelfia, nei primi anni ’50, aveva praticamente smesso, in quanto sentiva il rischio di concedersi un “lusso”; sono già gli anni dei primi digiuni, gli scioperi alla rovescia, le documentazioni dei libri-inchiesta e le lunghissime pressioni per la diga sul fiume Jato.

Riprenderà a scrivere poesia all’incirca dal 1968, cioè all’indomani del terremoto del Belìce, sempre partendo dal raccogliere la voce degli ultimi, degli umili, “i poveri cristi”. Il momento di rendere pubblici questi versi viene in occasione della prima Radio Libera italiana, del Centro Studi e Iniziative di Partinico, cioè con la folgorante e necessaria esperienza della Radio clandestina – dichiaratamente “della nuova resistenza”, 1970 – in cui alle precise denunce sulla mancata ricostruzione della zona terremotata (ancora, a distanza di due anni) fanno da contrappeso le voci poetiche, disperate, antiche e nobilissime, di pastori, muratori, contadini, pescatori, bambine e mamme che si ritraggono con un linguaggio semplice, immediato e fortemente espressivo. Questo è appunto il contenuto de Il limone lunare, pubblicato da Laterza pochi mesi dopo, nel 1970.

Nel 1974 papà rielabora tutte le sue precedenti poesie e ne fa un volume complessivo (contenente cioè i Ricercari, Il limone lunare, Non sentite l’odore del fumo? e altro): questo libro è proprio il Poema umano, di cui abbiamo oggi una bellissima edizione, grazie alla casa editrice Mesogea di Messina, che lo ha ripubblicato nel 2016.

Come impatto sull’opinione pubblica e nella realtà di quel momento ripropongo alcuni frammenti di recensioni a questi testi da parte del noto critico letterario Giancarlo Vigorelli, del 1970 e del 1974.

Se nel ’36, quando uscì Lavorare stanca di Pavese, nessuno si accorse di quella pregnante novità, stiamo attenti, questa volta con Il limone lunare a non cadere in un silenzio e in errore ben più grave davanti a questa poesia di atavica grazia e attuale verità, tanto antiretorica, cantata in ‘povertà di spirito’, così essenziale: ‘Genio è ridurre tutto all’essenziale’
[…]
La poesia di Dolci è destinata a fare data nella storia del nostro tempo. È anche un indizio che tante false carte letterarie e politiche sono da bruciare, sono già cenere.

Giancarlo Vigorelli, Il Tempo, 26/09/1970

Qualche anno dopo scriverà ancora:

Di poesia civile se ne è fatta tanta, troppa, nel nostro paese, ma sempre affogata nella retorica: questa di Dolci è essenziale, elementare, dimessa, persino, ma non ammette replica. E se già per Il limone lunare avevo scritto che, anche se inascoltata, la poesia di Dolci è destinata a fare data nella storia (non ufficiale) della poesia del nostro tempo, ora che abbiamo nelle mani, appena uscita, la raccolta completa delle poesie dal 1949 ad oggi, dal giusto titolo Poema umano (Einaudi, 1974), va subito affermato che non sarà più possibile, in sede letteraria, rifiutare o anche solo sottovalutare questa sfrenata e razionalissima voce di poesia, valida quanto più insolita tra noi.

[…]

È una poesia, come da tempi lontani non se ne faceva più da noi, una poesia che il poeta fa più per gli altri che per se stesso: da noi è inaudito, è inimmaginabile.

Giancarlo Vigorelli, Il Giorno, 17/04/1974

Oltre a questi pubblici riconoscimenti, il regista e scrittore Cesare Zavattini disse di lui: «La poesia è in atto già nei fatti e nella vita di Danilo. È il solo della nostra generazione che ha saputo ridurre al minimo la terra di nessuno esistente tra la vita e la letteratura».

Dolci in quegli stessi anni pubblica altri libri, saggi e documentazioni del lavoro del Centro Studi (Chissà se i pesci piangono, 1973; Esperienze e riflessioni, 1974); nel caso della poesia, seguirà un altro libro importantissimo, Il Dio delle zecche del 1976, che contiamo di avere nuovamente in libreria nei prossimi mesi, sempre a cura della Mesogea.

I poeti e grandi amici di Danilo, Andrea Zanzotto e Mario Luzi, hanno scritto dei saggi illuminanti sul suo modo di intendere la poesia.

Fondamentale è anche lo studio di Giuseppe Fontanelli (Danilo Dolci, per le edizioni Il Castoro, La Nuova Italia, 1984): inoltre, sempre a cura di Fontanelli, è disponibile nelle librerie un’antologia di tutta l’opera poetica di Danilo Dolci, Un cosmo vivo. Poesie 1968-1996, pubblicata nel 2012 dall’editore Dante & Descartes, Napoli.

Infine, riporto una delle tante citazioni possibili, in cui Danilo stesso si riferisce al fare poesia.

Ecco che cos’è poesia: il passaggio dalla realtà com’è a come potrebbe essere, dialettica tra essere e desiderio. Poetare è comporre l’esperienza. Poetare è riuscire veramente a costruire. La poesia è anche intuizione, radar, possibilità di vedere ogni volta in un volto, in un determinato volto, oltre quel volto: cogliendo in esso la parabola che rivela oltre di sé.

Danilo Dolci