Approfondimento a cura di Giuseppe Barone
Da qualche tempo cerco di prestare attenzione a come la parola “nonviolenza” viene scritta da giornalisti, studiosi, saggisti. Nella maggior parte dei casi, con la complicità dei programmi di correzione automatica dei computer evidentemente poco interessati all’opera di Gandhi e Capitini, viene spezzata in due parti: non violenza. Altre volte, come ad attenuare il trauma della cesura, viene ricucita con un trattino: non-violenza.
Questo esercizio ortografico che, sono consapevole, a qualcuno potrà apparire poco utile, mi sembra faccia invece emergere un problema non irrilevante: ancora oggi la nonviolenza, il pensiero e la prassi della nonviolenza, risultano ai più sconosciuti, estranei. Non solo nelle chiacchiere da bar, ma anche negli scritti di autorevoli commentatori, sovente si confondono nonviolenza, pacifismo e resistenza passiva: un metodo di azione che implica sempre un fare, e soprattutto un fare in un certo modo, viene spacciato per pura e semplice astensione dalla violenza. I nonviolenti (o pacifisti, tanto fa lo stesso) vengono per lo più dipinti come anime belle, incapaci di vedere che il mondo si sostanzia di aggressioni conflitti uccisioni e così via; come persone convinte – ma senza che si presti credito eccessivo alla loro buona fede – che i problemi si risolvano mettendo fiori nelle canne dei fucili.
Vale la pena, per provare a fare un po’ di chiarezza, di partire da una frase di Gandhi, citata spesso in modo parziale e quasi sempre a sproposito: «Piuttosto che scappare, meglio sparare», scrive il Mahatma. Ma subito dopo aggiunge: «Piuttosto che sparare, meglio cercare mezzi più efficaci e moralmente più accettabili». Dunque, non la giustificazione di conflitti più o meno “chirurgici” a base di uranio più o meno impoverito che qualcuno ha voluto incredibilmente leggervi, ma un fondamentale chiarimento su cosa debba intendersi per nonviolenza: non tanto il tentativo di negare, quanto lo sforzo di superare la violenza, sul piano dell’etica ma anche – e questo mi sembra davvero essenziale – dell’efficacia, della qualità dei risultati. Danilo Dolci, negli anni Cinquanta, definirà così il proprio lavoro per il riscatto delle popolazioni della Sicilia occidentale e contro il sistema clientelare-mafioso: «Continuazione della Resistenza, senza sparare».
L’attivista nonviolento, come pure chi imbraccia un fucile per difendere la libertà di un popolo, muovono entrambi dall’esigenza, dall’urgenza, di modificare uno status quo ritenuto inaccettabile, ma perseguono il cambiamento con metodi antitetici. Non si tratta però di una scelta di comodo. «Un uomo», avverte Gandhi «non può praticare la nonviolenza ed essere nello stesso tempo un codardo. La pratica della nonviolenza richiede il più grande coraggio»1.
Un ruolo importante nella pratica nonviolenta è svolto dalla cosiddetta noncollaborazione (anche qui: una sola parola). «La noncollaborazione», spiega Capitini «può effettuarsi nei riguardi di altre persone o nei riguardi di un’autorità, di un’istituzione, di una legge, nel qual caso viene ad essere disobbedienza civile»2. La contraddizione con quanto detto sopra è solo apparente. Anche se si concretizza in un non fare, la noncollaborazione non scaturisce dall’indifferenza o dal rifiuto di prender parte; non è un modo di “lavarsene le mani”: è la scelta di agire direttamente sulle cause di un problema e chi la opera è consapevole delle conseguenze – anche gravi – che potranno derivarne. «La nonviolenza», chiarisce Gandhi «a mio parere deve essere interpretata non puramente come un’espressione negativa che indica la volontà di non nuocere ad alcuno, ma come un’espressione positiva di amore, della volontà di fare il bene anche di chi commette il male. Ciò non significa tuttavia aiutare chi commette il male a continuare le sue azioni immorali o tollerare queste ultime passivamente. Al contrario l’amore, espressione positiva della nonviolenza, richiede che si resista a colui che commette il male dissociandosi da lui; anche se questo può offenderlo o arrecargli danni fisici. Così, se mio figlio conduce una vita immorale, io non devo aiutarlo a perseverare nella sua condotta continuando a mantenerlo; al contrario il mio amore per lui richiede che io cessi di mantenerlo in qualsiasi modo, anche se questo potrebbe significare la sua morte. E lo stesso amore richiede che io lo riaccolga al mio seno quando si pente. Ma non posso costringere con la forza fisica mio figlio a diventare buono. Questa a mio parere è la morale della storia del Figliol Prodigo. La noncollaborazione non è qualcosa di passivo, è qualcosa di estremamente attivo, di più attivo della resistenza fisica e della violenza»3. La noncollaborazione, che richiede comportamenti chiari e conseguenti e la massima pubblicità delle motivazioni, non elude – piuttosto, esalta – la questione della responsabilità individuale che comporta ciascuno dei nostri atti.
La nonviolenza, ancora, si caratterizza per l’accento particolare posto sul rapporto tra mezzi e fini. Il fine non giustifica i mezzi. Anzi: mezzi inappropriati possono vanificare, negare de facto, il raggiungimento dell’obiettivo. «Non si può rimandare a domani il disoccupato che cerca lavoro perché ha i figli alla fame. Rivoluzione e subito», scrive Danilo Dolci in Banditi a Partinico (1955). «Ma il modo della rivoluzione è essenziale. Se seminiamo morte e inesattezze non nasce vita». Ciò non significa aprire le porte a una nuova, consolatoria, forma di determinismo. «La nonviolenza», annota ancora Capitini «è affidata ad un metodo che è aperto in quanto accoglie e perfeziona sempre i suoi modi, ed è sperimentale perché saggia le circostanze determinate di una situazione»4. E Gandhi: «La retta condotta non è paragonabile alla linea retta di Euclide. È come un bell’albero, le cui milioni di foglie sono ciascuna diversa dall’altra. Anche se tutte nascono da un solo seme e appartengono allo stesso albero, non c’è parte di albero che presenti l’uniformità di una figura geometrica. E tuttavia, sappiamo che il seme, i rami e le foglie sono una sola e unica cosa. Sappiamo, inoltre, che nessuna figura geometrica può reggere il confronto con un albero in piena fioritura, per bellezza e maestà»5. Lasciatosi alle spalle ogni residuo di facile positivismo applicato alle scienze sociali (del tipo: «Se facciamo il bene, non potrà derivarne che bene»), Gandhi sembra quasi preludere, in anticipo di alcuni decenni, a una visione del mondo ispirata alla “scienza della complessità”.
Un problema diverso, eppure connesso a quanto detto sinora, scaturisce dalla considerazione che le lingue che tutti noi utilizziamo sono prodotti di una storia e di culture prevalentemente violente[6]. Alcune discipline, come il marketing, hanno integralmente mutuato il proprio vocabolario dai teorici dell’“arte della guerra” (dalle strategie di espansione all’ormai diffusissimo target, dove il bersaglio, l’obiettivo da colpire è un gruppo omogeneo di persone, una massa), ma veri e propri “reperti bellici”, tutt’altro che episodici, si possono rinvenire anche in contesti che sembrerebbero lontani dal militarismo. Mi limito, tra tanti esempi possibili, a sceglierne un paio che riguardano l’ambito educativo: classe, come talvolta dimentichiamo, deriva dal latino classis, cioè flotta; insegnare è in signare, fare un segno nelle persone (nei discenti), marchiare.
Parlare di nonviolenza utilizzando lingue figlie della violenza è un paradosso, al quale tuttavia non possiamo sottrarci.
Quando Aldo Capitini, con un’operazione analoga a quella compiuta da Gandhi con l’utilizzo della parola ahimsa[7], scrive nonviolenza eliminando lo spazio tra le due parole, cerca di rendere anche nella grafia, utilizzando gli strumenti che la nostra lingua gli consente, il senso di un metodo che vuole essere, più che mero rifiuto della violenza, vero strumento di lotta. Nella sua opera, peraltro, Gandhi fa spesso ricorso al termine Satyagraha, che letteralmente significa “forza della sincerità”[8]. E Capitini, ad evitare ogni equivoco, preferirà l’espressione azione nonviolenta al sostantivo nonviolenza. “Azione nonviolenta”, difatti, si chiamerà la rivista da lui fondata nel 1964.
Se scorriamo le biografie dei protagonisti delle maggiori battaglie nonviolente del XX secolo – da Gandhi a Martin Luther King a Dolci alla birmana Aung San Suu Kyi; ma si pensi anche allo straordinario lavoro di Gino Strada con Emergency e all’attività di altre organizzazioni non governative come Greenpeace o Amnesty International – non si può non rilevare come siano tutte caratterizzate da un fare, un fare in un certo modo, piuttosto che da un non fare.
La vicenda di Danilo Dolci è, tra le citate, quella a noi più vicina e, per molti aspetti, meno conosciuta. Tutt’altro che apostolo del quietismo e dell’italico “volemose bene”, al suo arrivo in Sicilia, Dolci non propone certo di impegnarsi per un sorta di ecumenica pacificazione degli animi: i conflitti (che giudicava “necessari”) ha cercato sovente di farli emergere e agire. Pur attento al fondamentale contributo gandhiano, Dolci «pensa che Gandhi debba essere molto integrato da quanto di meglio il socialismo propone, e la tecnica e la scienza »[9]. Strumenti della sua lotta nonviolenta sono stati il digiuno, lo “sciopero alla rovescia”, le manifestazioni pubbliche, la struttura maieutica di gruppo, la mobilitazione antimafia, la diffusione di strutture cooperativistiche, l’utilizzo di ogni mezzo disponibile per dare voce a chi voce non ne aveva (compresa l’invenzione della prima radio libera – e perciò illegale – italiana). In tutte le vicende umane i risultati sono sempre parziali, anche opinabili; le vittorie, gli obiettivi centrati si alternano alle sconfitte. Ma alcune realizzazioni sono sotto gli occhi di tutti, indiscutibili: come la diga sul fiume Jato, costruita tra lo scetticismo dei benpensanti («Non si costruiscono dighe con i digiuni!»), che ha cambiato la vita di migliaia di persone, la storia non solo economica di una parte importante della Sicilia.
Ci lasciamo alle spalle un secolo sfigurato da totalitarismi, campi di concentramento, morte atomica, rivoluzioni fallite. Nella confusione dei nostri giorni, mentre monete un tempo luccicanti ci sembrano ormai irrimediabilmente fuori corso, la nonviolenza ha forse ancora molto da dirci.
Breve percorso bibliografico
Mi sembra opportuno, a margine di questi appunti, fornire alcune indicazioni a beneficio di quanti volessero approfondire gli argomenti trattati.
Punto di partenza quasi obbligato per chi voglia conoscere meglio il pensiero di Gandhi è l’ampia e ben strutturata antologia Teoria e pratica della non-violenza [sic] (Einaudi, Torino 1973), che comprende una significativa selezione di scritti politici del periodo 1919-1948 e brani scelti dall’Autobiografia. Il libro è aperto da un importante saggio di Giuliano Pontara, uno dei maggiori esperti italiani di nonviolenza. Un’edizione integrale nella nostra lingua dell’Autobiografia (in originale: An Autobiography or the Story of My Experiments with Truth) è disponibile per i tipi della Newton Compton (Roma 1973), con il titolo La mia vita per la libertà. Mi pare doverosa una precisazione: Gandhi scrisse queste memorie nel 1925, per cui in esse manca la documentazione di quasi un quarto di secolo della vita e dell’attività del Mahatma. L’editore torinese Sonda è da alcuni anni impegnato nella pubblicazione degli scritti etico-politici del “padre della nonviolenza”. La traduzione e la scelta dei saggi è condotta sulla base dell’edizione critica delle Opere complete, pubblicata in India tra il 1960 e il 1988. Nel 1995 ha visto la luce, a cura di Raghavan Iyer, il primo volume: Civiltà, politica e religione. Dei successivi due volumi , che completeranno l’opera, sono stati annunciati i titoli: Verità e nonviolenza e Resistenza nonviolenta e trasformazione sociale. Interessante è anche la già ricordata antologia, ordinata per argomenti, La voce della verità (Newton Compton, Roma 1991), che comprende anche una scelta di discorsi pronunciati tra il 1916 e il 1948.
La travagliata vicenda editoriale dell’opera di Aldo Capitini, che è impossibile approfondire in questa sede, ha senz’altro contribuito alla scarsa diffusione del suo pensiero e rende ardua, oggi, la consultazione di larga parte dei suoi scritti. Una buona antologia, che contiene anche brevi saggi critici, alcune testimonianze di intellettuali e collaboratori e un’accuratissima bibliografia è Il messaggio di Aldo Capitini, a cura di Giovanni Cacioppo (Lacaita, Manduria 1977). La perugina Protagon ha fatto in tempo, prima di chiudere i battenti, a pubblicare i primi due volumi dell’Opera omnia di Capitini: Scritti sulla nonviolenza, a cura di Luisa Schippa (1992) e Scritti filosofici e religiosi, a cura di Mario Martini (1994). Malgrado alcuni evidenti limiti (la mancanza di apparati, l’opinabilità dei criteri di selezione adottati), queste raccolte costituiscono comunque una miniera di scritti in altro modo difficilmente reperibili. Un libro che fornisce una panoramica chiara ed essenziale, supportata da numerosi esempi, dei principali metodi di azione utilizzati dai satyagrahi è Le tecniche della nonviolenza (Libreria Feltrinelli, Milano 1967; nuova ed.: Linea d’ombra, Milano 1989). In cammino per la pace (Einaudi, Torino 1962) raccoglie documenti e testimonianze sulla prima marcia Perugia-Assisi, promossa da Capitini, alla quale parteciparono, tra gli altri, Italo Calvino e Norberto Bobbio. Un’ottima introduzione alla vita e al pensiero del filosofo perugino è Aldo Capitini di Fabrizio Truini (Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole 1989).
In Danilo Dolci la riflessione sulla nonviolenza si intreccia costantemente all’elaborazione sugli altri temi ricorrenti del suo pensiero: l’azione educativa, la maieutica di gruppo, la critica della Modernità, la comunicazione, la massificazione delle società contemporanee. Tra i tanti titoli in cui questo discorso viene articolandosi e definendosi, provo a indicarne tre: Inventare il futuro (terza edizione accresciuta, Laterza, Bari 1972), Nessi fra esperienza etica e politica (Lacaita, Manduria 1993), La struttura maieutica e l’evolverci (La Nuova Italia, Scandicci 1996). La monografia più aggiornata disponibile in lingua italiana, anche se dedicata a un solo aspetto del lavoro di Dolci, è Danilo Dolci educatore. Un nuovo modo di pensare e di essere nell’era atomica di Antonino Mangano (Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole 1992). Per quanti volessero approfondire la conoscenza della sua opera, di qualche utilità potrà risultare il mio saggio La forza della nonviolenza. Bibliografia e profilo biografico di Danilo Dolci (Dante & Descartes, Napoli 2000).
La forza di amare, sei, Torino 1967 (la traduzione dall’originale Strength to Love, 1963, è di Ernesto Balducci) rappresenta un importante momento di sintesi del pensiero di Martin Luther King. In lingua italiana è anche disponibile I have a dream. L’autobiografia del profeta dell’uguaglianza, Mondadori, Milano 2000 (l’edizione statunitense è del 1998).
Del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi è uscito Libera dalla paura (Sperling & Kupfer, Milano 1996; ed. or.: Freedom from Fear, University of California, 1991).
Un documento essenziale per la storia della nonviolenza in Italia è la lettera di don Lorenzo Milani Ai cappellani militari toscani, che in un loro documento avevano definito l’obiezione di coscienza «estranea al comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà». La risposta del priore di Barbiana, con la Memoria consegnata ai giudici nel corso del processo per “apologia di reato” che ne seguì, è contenuta in L’obbedienza non è più una virtù e gli altri scritti pubblici, a cura di Carlo Galeotti (Stampa Alternativa, Viterbo 1998).
Di Gino Strada Feltrinelli ha proposto Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra (1999) e Buskashì. Viaggio dentro la guerra (2002). Il sito internet di Emergency è www.emergency.it, tel. 02.76.001.004.
“Azione nonviolenta”, fondata nel 1964 da Aldo Capitini, continua ancora oggi le pubblicazioni (la redazione è a Verona, in via Spagna 8; e-mail: azionenonviolenta@sis.it). La rivista, edita dal Movimento Nonviolento, è un fondamentale strumento di formazione, informazione e dibattito sulle tematiche della nonviolenza in Italia e nel mondo. Sempre a Verona è attiva da qualche anno la “Casa per la nonviolenza” (tel. 045.800.98.03). La struttura, dotata di biblioteca ed emeroteca, è sede di convegni e corsi di formazione.
[1] Da “The Modern Review”, ottobre 1916; poi in M.K. Gandhi, The Voice of Truth, Navajivan Trust, Ahmedabad 1968; trad. it.: La voce della verità, Newton Compton, Roma 1991.
[2] Da Le tecniche della nonviolenza, Libreria Feltrinelli, Milano 1967.
[3] Da “Young India”, 25 agosto 1920; trad. it. in M.K. Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, Einaudi, Torino 1973.
[4] Da Le tecniche della nonviolenza, cit.
[5] Da “Young India”, 14 agosto 1924; poi in The Voice of Truth, cit.
[6] Roland Barthes avrebbe detto che la lingua, e la società, sono fasciste. Si veda la Lezione inaugurale al Collège de France recentemente ripubblicata in appendice a Sade, Fourier, Loyola, Einaudi, Torino 2001.
[7] Comunemente reso con “nonviolenza”, il vocabolo andrebbe più correttamente tradotto come “intento di non nuocere”. Non si tratta di una parola coniata da Gandhi: l’ahimsa è uno dei principi essenziali di diverse correnti filosofiche indiane, e in modo particolare del Giainismo. La grande innovazione gandhiana, tuttavia, consiste nell’aver trasformato un precetto etico-religioso in strumento dell’agire politico. Per un approfondimento della storia della filosofia indiana si rinvia a Heinrich Zimmer, Philosophies of India, Bollingen Foundation, New York 1951 (trad. it.: Filosofie e religioni dell’India, Mondadori, Milano 2001).
[8] Satya ha anche il significato di “(tensione verso la) verità”; agraha quello di “adesione”, “attaccamento”, “coerenza”.
[9] Così Aldo Capitini, Rivoluzione aperta, Parenti, Milano 1956.