Approfondimento a cura di Tiziana Rita Morgante
Nel corso delle mie continue riflessioni[1] sulla relazione educativa che da anni vivo nella scuola, l’ho sempre immaginata come un “reciproco adattamento creativo”, in cui ci si accoglie, ci si prende cura di ogni creatura, ci si aiuta nello sviluppo, lasciando spazio a ciascuno di disvelarsi secondo i suoi naturali tempi.
Per meglio comprenderne la profonda intensità vorrei attingere al racconto dell’incontro tra il Piccolo Principe e la volpe, quale metafora di tale relazione, nella quale in modo poetico si esplicano quei meccanismi e quelle dinamiche che vi entrano in gioco. In esso sono ravvisabili dodici parole chiave che ne disvelano tutte le caratteristiche. Queste dodici parole, che ho evidenziato sintetizzandole dal racconto, non hanno un carattere gerarchico o di propedeuticità ma, in una assoluta circolarità e parità, risultano ugualmente fondamentali.
Com’è noto nell’incontro tra il Piccolo Principe e la volpe, quest’ultima gli chiede di essere addomesticata, ciò potrebbe apparire stonato in campo educativo, ma ad un esame più profondo del termine se ne comprende il vero senso. La parola in lingua originale “Apprivoiser”, tradotta in italiano con il termine “addomesticare”, è in realtà riduttiva rispetto al suo significato più ampio e cioè: familiarizzare, abituare, rendere socievole. Qualsiasi individuo si accosti a un ambiente educativo, per la prima volta, oppure chiunque si inserisca in un contesto per lui nuovo, ha bisogno di abituarsi e di familiarizzare con l’ambiente, solo così imparerà a far parte di quel gruppo sociale, è questa una verità scontata.
Creare una relazione
“Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, “sono così triste.”
“Non posso giocare con te” disse la volpe, “non sono addomesticata”. Dopo un momento di riflessione soggiunse: “Che cosa vuol dire addomesticare?”
“È una cosa da molti dimenticata. Vuol dire creare dei legami […]” disse la volpe.
Unicità dell’individuo
“Tu fino ad ora, per me non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi.
Reciprocità
Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo. […] Io mi annoio[…] Se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. […]
Fiducia
Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica […]. Per favore[…] addomesticami.”
Prendersi tempo
“Volentieri” rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose.”
“Non si conoscono che le cose che si addomesticano” disse la volpe “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla.
Creare/Inventare strategie
Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”
Gradualità
“Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba.
Osservazione reciproca
Io ti guarderò con la cosa dell’occhio e tu non dirai nulla.
Linguaggio non verbale
Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
Ritualità
“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice […] Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore […] Ci vogliono i riti.”
“Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe.
“Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore […]”
Affettività
Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “piangerò […] Addio […] Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi […].
Responsabilità
Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato.”
Prima di avviare qualsiasi processo di conoscenza che trasformi la scuola in un autentico ambiente di apprendimento fondato sull’approccio maieutico reciproco, occorre creare una relazione, ogni classe è da considerarsi come una sorta di organismo vivente, in cui ciascuno partecipa al contesto nel modo che più gli appartiene. Se l’apprendimento non è, e non deve essere inteso, come una mera trasmissione di notizie e di informazioni più o meno precise e dettagliate, ne consegue che alla base di un percorso educativo non sarà possibile separare la sfera cognitiva da quella relazionale. Dopo i suoi lunghi anni di insegnamento, le sue tante rivoluzioni silenziose, il maestro Mario Lodi, contrario a qualsiasi rigido manuale o vincolante programma, ricorda che “un programma buono non può essere dato, ma solo indicato e deve tener conto non di un sapere nozionistico da ripartire, ma di ciò che è il bambino e di ciò che vede e capisce e ama. Andare in profondità, insomma, verso la qualità della conoscenza, non in estensione verso una quantità di briciole inutili. Ma fare questo significa far saltare tutti i piani prestabiliti, l’orario, la dittatura del maestro nella classe, il metodo d’insegnamento.”[2]
Per creare una relazione educativa occorre partire in modo prioritario dal cambiare i paradigmi. “Tra i muri della scuola si possono trasmettere dati, tecniche, atmosfere, ma la conoscenza è un processo che ognuno deve ricrearsi e comparare nel rispetto del senso critico: se l’insegnante inculca, ammaestra e esamina, non cresce il dialogo della ricerca, nemmeno ci si conosce.”[3] Presupposto fondante di qualsiasi percorso educativo è la costruzione di una relazione, di un legame tra le parti coinvolte, un legame fondato sull’affettività che renda unico e irripetibile ciascuno. Ci si prende cura l’uno dell’altro e nella relazione si fonda la reciprocità. Questo significa che tutti sono ugualmente coinvolti, impegnati in uno scambio, in un continuo confronto, che consente di riconoscere l’unicità dell’altro, la sua specificità e le sue caratteristiche. Attraverso la relazione ci si “ri-conosce” e si impara a vedere l’altro non come un’alterità da allontanare da sé, ma come una risorsa che illumina i propri percorsi di crescita. L’altro, con la propria singolarità, diventa un fattore di arricchimento e di crescita del sé, evitando così chiusure o sterili bozzoli. J. Dewey ricordava che per insegnare inglese a John, bisognerà saper amare l’inglese, amare insegnare e amare John. Saper amare sembra essere l’essenza dell’educare. Ma saper amare chi impara significa saperlo amare nelle sue peculiarità, nel suo unico e irripetibile modo di essere, pur con le sue fragilità e inciampi, significa, come direbbe Recalcati, saper amare la vite storta. Sono spesso questi inciampi che, allontanandolo da qualunque modello ideale, lo rendono ancor più amabile perché lontano da ogni logica di competizione “accumulativa” gli donano una imperfetta autenticità. Ed è proprio questa vite storta, che non è certo né da raddrizzare, né da potare, sempre ammesso che il paragone botanico possa essere funzionale con i ragazzi, ma da accogliere con tutte le sue contraddizioni, che grazie alle sue dissonanze rende possibile il dubbio, quel costante moto di rinnovamento che, impedisce di assopirsi, per generare una ricerca continua di nuove possibili soluzioni.
Aprirsi all’altro distrugge le barriere della paura, della resistenza e della diffidenza: ciascuno si sente accettato per quello che è e non per quello che sa. Si crea una conoscenza che determina un clima di fiducia, poiché si conosce l’altro e si impara a fidarsi. Ma la fiducia non è data in modo aprioristico, non è possibile darla per scontata, non si può pretendere, né tantomeno si può pensare che stare dietro la cattedra ne garantisca l’acquisizione. La fiducia va conquistata, giorno per giorno, lentamente, prendendosi il tempo necessario, che non sempre è uguale per tutti. A ciascuno va dato il tempo di maturare un proprio sistema di interazione. Ognuno ha una propria storia personale, un proprio vissuto, delle particolari esperienze, che gli consente di affrontare le differenti sfide educative con modalità diverse e dalle quali non si può in alcun modo prescindere. Dare il tempo significa saper aspettare l’altro, darsi il tempo per riconoscere i propri bisogni e trasformarli in interessi, avere la pazienza di porsi una serie di obiettivi intermedi, o a breve termine, che ciascuno raggiungerà secondo il principio della gradualità.
Occorrerà creare/inventare delle strategie che talvolta potranno essere differenti per ogni singolo alunno, ma che tutte si fondano sul principio della comunicazione maieutica, quale bussola con la quale orientarsi nelle scelte metodologiche. Non esiste una soluzione che sia applicabile in modo universale. Esistono delle idee, un pensiero, dei principi-cardine che sottendono alle strategie e agli interventi che si pongono in atto, una sorta di faro che illumina sulle vie da percorrere soprattutto quando si brancola nel buio, ma non esiste una ricetta da vendere. Proprio perché non si vende nulla di preconfezionato e non esiste un manuale d’istruzione, è importante un’azione riflessiva, è importante pensare e documentare in modo preciso, puntuale e profondamente onesto, quanto si fa nella scuola. Pensare nella scuola dovrebbe essere attività consueta. Negli ultimi anni invece la scuola è andata sempre più delineandosi come luogo del dover fare piuttosto che pensare, di un agire di cui non si comprende spesso il senso, in cui sono proposte innumerevoli attività solo in funzione della loro misurabilità e valutabilità dentro i quali è annullato ogni processo riflessivo. Non sempre le azioni sono misurabili, ma certamente sono osservabili, soprattutto la coerenza tra pensiero e azione è facilmente osservabile, anche dagli studenti. Per trovare la strategia giusta occorre una fase iniziale in cui darsi il tempo necessario per osservarsi reciprocamente.
Tutti sono ugualmente coinvolti nella relazione educativa, ognuno con il proprio ruolo: entrambi protagonisti! Nell’osservazione il linguaggio non è sempre fondamentale, anzi spesso è proprio dal linguaggio non verbale, attraverso un’osservazione attenta e non giudicante, che si acquisisce il maggior numero di informazioni, che si costruisce una comunicazione profonda, al di là delle parole.
Per stabilire una relazione che crei sicurezza e autonomia, occorre non dimenticare un altro aspetto abbastanza distintivo del mondo non solo infantile: la ritualità. La ritualità, ad esempio, nell’aprire o chiudere un’attività, nel sapere come è progettata una giornata, dà sicurezza e aiuta bambini e ragazzi ad acquisire autonomia, a scandire il tempo necessario, a rielaborare il lavoro, ad essere propositivi. Non più eterodiretti, condotti alla meta da adulti che decidono apriori per loro, sanno organizzarsi, diventano compartecipi del processo di apprendimento, costruiscono insieme all’educatore il loro percorso di crescita, apportando modifiche, suggerimenti, imparando a scegliere. Si avvieranno, così, a diventare adulti, cittadini, responsabili e consapevoli. Mentre lo studente acquisisce senso di responsabilità, il docente ne sarà per sempre responsabile: durante la loro relazione può avergli fornito gli strumenti per migliorare e accrescere il suo potenziale oppure può averlo indebolito e spento in maniera più o meno inesorabile. “La solitudine delle nuove generazioni […] deriva innanzitutto dalla difficoltà che gli adulti hanno nel sostenere quella responsabilità illimitata che il loro ruolo educativo comporta. […] Al centro non è più il conflitto edipico tra le generazioni, il conflitto tra la Legge e la sua sovversione trasgressiva, ma la solitudine di una generazione che si sente lasciata cadere, abbandonata, che cerca il confronto con il mondo degli adulti ma non lo trova, che fa fatica a trovare degli adulti con i quali misurare il proprio progetto di mondo.”[4]
Se un bravo maestro lascia sempre un segno indelebile nel cuore e nella mente dei suoi alunni, sarà solo un grande maestro che avrà la tenacia e la pazienza di documentare il suo lavoro, per riflettere, per rivederlo con sguardo critico e per lasciarlo come eredità al futuro. La documentazione è un momento imprescindibile per rielaborare l’esperienza, ed è importante che resti una traccia tangibile, anche all’esterno, di tutto il lavoro svolto.
“Nella scuola ci sono i bravi maestri.
Di essi resta traccia nella vita delle persone a cui, nella loro fanciullezza, hanno comunicato il piacere di studiare.
Poi ci sono coloro che scrivono senza aver mai fatto esperienza diretta coi ragazzi. Questi si autodefiniscono pedagogisti, li troviamo di frequente nelle università.
Di essi, forse, resterà un vago ricordo.
Infine ci sono i veri maestri, quelli che sanno aiutare a far fiorire le intelligenze e le personalità dei ragazzi e sanno poi riflettere sul loro lavoro educativo, scrivendo e documentando.”[5]
Sull’esempio dei “veri maestri” dovremmo imparare a raccogliere e documentare il nostro lavoro per costruire un modo di essere scuola che, superati gli errori passati e proprio partendo da essi, sappia riflettere su di sé e sul suo operato, rinnovandosi dal profondo attraverso processi metacognitivi. Senza tale documentazione è molto faticoso, per non dire quasi impossibile, ripensare il lavoro svolto, rivedere il percorso fatto, evitare il reiterare degli errori. Eppure, questo lavoro di documentazione che ha sempre contraddistinto l’esperienza educativa di Danilo, nel mondo della scuola sembra essere il compito più difficile da svolgere. Se noi oggi in occasione del centenario possiamo ricordare la figura e l’azione di Danilo è stato proprio grazie a questa sua capacità di documentare il lavoro svolto e, superando Socrate che invece ha evitato di lasciare il testimone, lui ha sperato e sognato che nuovi educatori maieutici potessero fiorire in ogni tempo e in ogni luogo.
Da lui ho imparato tanto, anche la paziente documentazione. Dopo anni di esperienza quotidiana nella scuola la documentazione che ho raccolto mi aiuta a sostenere con forza e audacia, qualche volta anche irriverente perché irriverente è spesso l’infanzia quando conserva i suoi tratti naturali, quanto l’approccio maieutico reciproco, che ho sperimentato prima con Danilo e poi nella mia pratica di maestra, possa garantire una svolta coraggiosa nella scuola, ormai in grande sofferenza. Credo che l’alternativa offerta da tale approccio restituisca alla scuola quel fine nobile di cui parlavano i ragazzi di Barbiana, quella dignità che ha quasi del tutto perduto. Al contrario dei tanti detrattori, credo che la scuola vada protetta e tutelata perché resta il luogo privilegiato in cui ciascuno possa avere una opportunità di crescita autentica. Rinnovare la scuola significa eliminare ciò che di erroneo, sofferente, vi è al suo interno, ma non certo negarne il suo grande valore e volgere lo sguardo a questo passato così intensamente ricco credo sia un’opportunità di rigenerazione e resistenza per ogni educatore.
È proprio alle parole di Danilo e a quelle dei miei bambini che voglio affidare la chiusura di queste riflessioni sulla relazione educativa.
C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.Profondamente stimavo un amico
quasi invidiando un altro, a cui diceva
stupido, e non a me.C’è pure chi educa, senza nascondere
D.Dolci, Poema umano, Mesogea, Messina, p. 112
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.
Cosa ne pensate di questi tre modelli educativi proposti?
Mi ha fatto capire che siamo tutti diversi e ognuno ha bisogno di un diverso modo per essere educato.
A qualcuno può piacere essere educato come un cavallo ma ad altri no. Se alcuni genitori educano i figli come cavalli e pensano che sia bello così, altri invece pensano che sia sbagliato perché sembrano pecore che seguono gli altri senza mai ragionare.
Sono d’accordo con te, anche secondo me al pensiero non si arriva se si è educati come cavalli.
A me questa poesia sembra un invito all’altruismo e a non seguire il branco.
Mi sembrano tre modi di insegnare diversi che sceglie sempre chi insegna e all’alunno, che è sempre diverso, resta solo di accettare uno di questi modi.
E se all’alunno questo modo non piace?
Potrebbe chiedere di cambiare, ma non è semplice.
Se l’insegnante è abituato ad un metodo e usa sempre quello stesso non lo cambia!
Anche per l’alunno è difficile cambiare modo perché se è abituato con un metodo e poi si trova con un altro è in difficoltà. Non si può chiedere però a un maestro di cambiare.
In realtà si può chiedere, però è difficile che lo accetti.
Se tutta la classe si trova male con il suo metodo, il maestro dovrebbe cercare di cambiare un po’, ma non riuscirà a cambiare completamente.
Dipende pure che tipo di maestro è perché potrebbe essere severo e rispondere che è l’alunno a doversi adattare, oppure potrebbe essere empatico e accetta di cambiare metodo per cercare di aiutare gli alunni.
Il maestro dovrebbe non usare un solo metodo ma mischiare i metodi così ogni alunno trova quello che è adatto per lui.
Abbiamo diritto di parola e possiamo esprimere la nostra opinione sul metodo scelto per noi, anche se il maestro non è d’accordo.
Ogni maestro ha un suo modo di insegnare diverso e se a un alunno piace da grande lo potrà imitare e sarà un maestro allo stesso modo. Questa poesia dà l’idea della diversità, a me piacerebbe essere educata con il terzo modo perché nessuno ti nasconde la verità ed impari ad essere sempre leale.
Io preferisco il terzo modo per essere educato perché ti dice cosa c’è veramente nel mondo altrimenti non sai e non comprendi cosa rischi.
A me piace il secondo perché incoraggia, diverte e quindi ti stimola a fare ciò che credi.
Anche a me piace il secondo perché è importante essere incoraggiati.
Io trovo giusto un misto tra il secondo e il terzo modo di educare perché hai il diritto di sapere quello che succede fuori dalla scuola, bisogna vivere e conoscere la verità. Però è importante anche essere incoraggiati dal maestro per superare le difficoltà.
A me piace il terzo modello perché se il maestro ti nasconde qualcosa e poi lo scopri da solo ci rimani male, ti senti tradito e sei deluso dal lui.
Io vorrei essere educato con il secondo e il terzo perché così vieni incoraggiato davanti alle difficoltà ma è anche importante che il maestro ti faccia conoscere il mondo.
Io penso a un quarto metodo, che è quello della mia maestra. Non esiste un solo metodo, ogni maestra è unica, anche se possono essere simili ma non saranno mai uguali. A me piace il metodo della mia maestra, perché se lo cambiasse non sarebbe più la mia maestra. Non riesco però a descriverlo…
A me piace il terzo modo perché il maestro ti fa conoscere il mondo così com’è e non ti crea un mondo bello, che è solo tuo e non esiste nella realtà.
Anche io preferisco gli ultimi due modi di essere educati è importante essere aiutati se non ci si sa esprimere, ma è anche importante che il maestro non ti nasconda com’è veramente il mondo.
A me piacciono in realtà tutti e tre, il primo ti aiuta a iniziare la tua strada, il secondo ti incoraggia a non chiuderti nel tuo mondo e a espanderti, il terzo ti fa scoprire come sei, le tue capacità, tu non credevi di essere quella persona che poi sei diventato.
Adesso che vi sento parlare capisco meglio anche il secondo modo, forse è anche importante essere incoraggiato con le parole giuste.
Evidenziate le parole dell’incoraggiamento e non quelle del divertimento, come mai?
È importante essere incoraggiati non tanto essere divertiti…
Io oggi non vorrei parlare, non vorrei dire quello che penso, comunque penso il secondo, essere incoraggiato dal maestro per qualcosa che mi è successo.
Per essere incoraggiati bisogna guardare bene la realtà, non trasformarla, altrimenti non si è incoraggiati ma illusi.
Se studi male non bisogna illudersi di aver fatto bene.
Cosa significa per voi incoraggiare?
Aiutare, dare più forza quando si ha paura…
…far stare bene una persona…
…ma non basta dire non ti preoccupare andrà bene, la prossima volta andrà meglio. Bisogna dire studia di più e andrà meglio, bisogna affrontare il problema per risolverlo.
Provo a sintetizzare. Se un compito è andato male, non è sufficiente dire che la prossima volta andrà bene, bisogna capire perché qualcosa è andata male. Bisogna osservare la realtà in modo sincero per poi poterla trasformare, altrimenti ci si illude che qualcosa cambi ma non potrà mai cambiare nulla. In questo caso non si viene incoraggiati, ma illusi.
Il primo modello l’ho capito adesso. Il cavallo ha i paraocchi e non riesce a vedere in tutte le direzioni, è obbligato dal padrone a vedere una sola direzione e non può vedere il mondo tutto così com’è.
A volte bisogna anche mettergli una carota davanti per farlo camminare, gli si dà un contentino. Però non capisco perché i cavalli ti calciano se vai dietro di loro.
Perché ha paura, non capisce che cosa ci sia dietro di lui…
…non vedendo dietro non riconosce chi c’è e se può essere un pericolo per lui, per questo reagisce in modo sbagliato.
Quindi potremmo dire che la paura nasce anche dal non conoscere?
Io penso proprio di sì, la paura nasce dalla mancanza di conoscenza.
Allora io direi che il terzo modello può essere accettato solo se tu conosci bene chi ti educa e ti fidi di lui perché sai che non ti inganna, ma adesso che arriviamo alle medie e non conosciamo nessuno, come facciamo a fidarci?
Ma anche loro sono insegnanti, ti devi fidare non è che li prendono per strada, hanno studiato, dobbiamo avere fiducia nella scuola.
Ma come faccio a capire se mi posso fidare, quando siamo arrivati qui, avevamo 6 anni come potevamo capire se ci avessero mentito. Come mi fido del maestro che ho davanti? Basta stare alla cattedra per essere maestro? Che ne so se dice sciocchezze e io non capisco nulla perché sono troppo piccolo?
Questo mi sembra un problema interessante da risolvere, come facciamo?
Io sono molto cambiato rispetto a quando sono arrivato, non solo perché sono cresciuto. Ho capito tante cose stando in classe. Il prossimo anno per osservare i nuovi maestri potremmo fare così: ad esempio se c’è un bambino che si comporta male possiamo vedere come reagisce il maestro. Per me è importante confrontare rispetto alle nostre maestre e vedere se il nuovo maestro agisce in modo simile. Questa scuola primaria è la mia esperienza, ho imparato ad essere autonomo e ragionare, e sulla base di questa esperienza cercherò di capire la scuola media, farò un paragone.
Noi ci siamo abituati al loro metodo e non possiamo sapere se è sbagliato.
Se si dà ad esempio un voto alla scuola primaria e poi diventa completamente diverso alla scuola media, che significa che è stato valutato male, chi ha sbagliato?
Cambia l’approccio e cambia anche il nostro modo di stare a scuola.
Non ha sbagliato nessuno, sono periodi diversi della nostra vita. Ogni volta che cambi scuola i metodi cambiano, il metodo al quale siamo abituati non ci sarà mai più.
Perché sei così sfiduciato e pensi che non potete trovare più un metodo analogo? Perché è solo adatto alla primaria?
Forse perché noi crescendo perdiamo interesse per lo studio, abbiamo altre cose per la testa, e il maestro a quel punto deve essere più severo.
Perché questo metodo non rimane anche se tu continui ad avere interesse per lo studio?
Provate a spiegare questo metodo, forse così capite se è possibile trovarlo in tutti gli ordini di scuola.
Il tuo metodo “montessoriano” non lo possiamo trovare, sei gentile e ci spieghi piano piano ogni cosa, anche quello che non capiamo, e quindi noi così stiamo bene e ci piace sempre quello che impariamo.
Perché non potete ritrovare altrove questa gentilezza e disponibilità?
In sintesi cambia la nostra età, i professori, la scuola. I professori utilizzano un metodo senza chiedersi a cosa tu fossi abituato.
Anche se la maestra rimprovera lo fa per bene, perché ci dà sempre tante attenzioni. Se c’è l’attenzione si cambia e si migliora. È questa attenzione che ci fa migliorare.
La maestra deve saper rimproverare, ti fa capire in cosa hai sbagliato, solo così migliori.
La maestra osserva continuamente.
A volte ci si comporta male perché si cercano le attenzioni e allora ci si comporta male di proposito. In questo caso se il maestro dà attenzione lui continua a comportarsi male perché ha ottenuto quello che desiderava.
Se questo accade, il maestro attento lo vede subito.
Serve la conoscenza reciproca, bisogna vedere piano piano come si comporta con me ma anche con gli altri.
Per ottenere la fiducia si deve saper aspettare.
È un misto tra aspettare e osservare il comportamento per vedere se è affidabile con le azioni.
Insomma allora queste caratteristiche di cui voi parlate si possono ritrovare anche in altre scuole. Provo a raccogliere le vostre idee: ogni maestro ha un suo metodo ma deve tener contro delle richieste e dei bisogni di ogni singolo alunno. Per essere adatto a tutti deve mischiare i differenti metodi in modo che gli alunni possano trovare quello giusto per loro, così nessuno si annoia e nessuno si perde. Credo che questo possiate chiederlo a tutti gli insegnanti, anche futuri.
Anche il linguaggio è importante per capire chi abbiamo davanti.
Questa notte la Russia ha bombardato l’Ucraina, anche questo è un fatto di fiducia perché li ha colti di sorpresa.
Maestra, ma è la terza guerra mondiale, arriva anche da noi?
[1] Queste pagine sono parte di un volume in cui ho unito le mie esperienze come maestra nella scuola primaria e i miei studi sull’approccio della maieutica reciproca, dal titolo Maestro, ma tu ci sogni?, inedito.
[2] M. Lodi, C’è speranza se questo accade al Vho, Einaudi, Torino 2014, p.17.
[3] D. Dolci, Comunicare legge della vita, Lacaita ed., Manduria 1993, p.44.
[4] M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, Milano 2021, p.p. 70-72.
[5] G. Zavalloni, La pedagogia della lumaca, Emi ed., Bologna 2012, p.15