Il 2 febbraio del 1956 Danilo Dolci veniva arrestato mentre guidava un gruppo di braccianti a lavorare nella Trazzera vecchia, una strada nei pressi di Partinico abbandonata all’incuria dalle amministrazioni preposte. Al commissario di polizia che era intervenuto per interrompere quello Sciopero alla rovescia – chiamato così perché chi partecipa lavora gratuitamente realizzando opere di pubblica utilità –, Dolci rispose che il lavoro non è solo un diritto, ma per l’articolo 4 della Costituzione un dovere. L’accusa era di occupazione di suolo pubblico e resistenza a pubblico ufficiale, e a Dolci e ai suoi collaboratori venne negata la libertà provvisoria.
L’opinione pubblica si mobilitò allora contro la polizia e il governo Tambroni, deputati e senatori intervennero con interrogazioni e dibattiti parlamentari (intervengono fra i tanti De Martino, La Malfa, Li Causi, Mancini, Pajetta) e le voci più influenti del Paese si schierarono a fianco di Dolci. Danilo venne difeso in tribunale da Piero Calamandrei, autore di un’arringa memorabile: alla sbarra non c’erano solo i manifestanti, ma la Costituzione stessa. Il processo, celebrato a Palermo, vide fra i testimoni Maria Fermi, Norberto Bobbio, Lucio Lombardo Radice, Elio Vittorini[1].
Raccontata in tutte le sue fasi processuali, dagli atti al dibattimento, la vicenda viene ripercorsa nel libro Processo all’articolo 4 con l’accompagnamento di preziosi documenti, necessari per coglierne il contesto (Danilo e i suoi amici verranno scarcerati a fine marzo, il libro uscirà nell’estate dello stesso anno presso Einaudi). Sessantotto anni dopo, vogliamo ricordare questa fondamentale battaglia della storia repubblicana volta ad affermare la Costituzione come regola vivente e non mera dichiarazione di principio: per questo, condividiamo la trascrizione dell’interrogatorio allo stesso Dolci in seguito al suo arresto. È una testimonianza tanto semplice quanto potente dell’azione rivoluzionaria nonviolenta che Danilo stava iniziando. Di fronte all’accusa di essere un sobillatore, Dolci risponde che non lo era affatto, perché l’azione che lui e i suoi collaboratori stavano facendo era un diritto-dovere sancito dalla Carta Costituzionale: “sarebbe stato, era ovvio, un assassinio non garantire alle persone il lavoro, secondo lo spirito della Costituzione”.
Processo all’articolo 4 è stato ripubblicato da Sellerio nel 2011.
Processo verbale di interrogatorio dell’imputato[2]
Interrogato in merito alle imputazioni, risponde:
Prendo atto dei reati che mi vengono contestati e protesto la mia innocenza, per quanto riguarda i reati di oltraggio e di resistenza perché non furono commessi né da me né dagli altri, e per quanto riguarda poi gli altri reati, poiché ritengo che la mia attività e quella di coloro che fino ad oggi hanno seguito il mio consiglio, era contenuta nei limiti del diritto.
Io mi trovo a Trappeto da quattro anni e mio intendimento stato quello di venire in aiuto alla popolazione del posto che si trova in tristissime condizioni materiali e spirituali.
È stato costruito per mia iniziativa un asilo per trenta bambini che funziona regolarmente mercé l’aiuto di amici e particolarmente dell’Associazione per il Mezzogiorno d’Italia.
Unico scopo dei miei studi e della mia attività in questa zona, dove la popolazione è particolarmente dedita ai delitti, fu quella di far intendere alla popolazione stessa che solo lavorando avrebbe potuto trovare la via che l’avrebbe condotta al benessere e alla vita onesta.
Attraverso diverse relazioni – e ultimamente al Congresso Internazionale di Studi sulle Aree Arretrate, tenutosi a Milano in presenza di tre ministri, Tremelloni, Vigorelli e Medici – ho documentato lo stato di analfabetismo in cui versa la popolazione di Partinico e contemporaneamente lo stato di miseria e la tendenza a delinquere della popolazione che nel giro di pochi anni aveva totalizzato tremila anni di carcere. Tali documenti furono pubblicati dall’editore Laterza in un volume intitolato Banditi a Partinico. Poiché attraverso queste relazioni e le richieste di intervento alle autorità, perché rivolgessero la loro attenzione alla popolazione di quel centro, non si otteneva ciò che era necessario, e poiché spesse volte io potevo apprendere le cattive intenzioni di quella gente, quello che era disposta a commettere pur di sfamarsi, decisi di attuare un programma più concreto in modo di attirare meglio la attenzione delle autorità, sempre indotto al fine di persuadere la popolazione ad agire onestamente attraverso la via della redenzione che è il lavoro.
Fu così che, alcuni giorni prima dei fatti attuali, indussi un forte numero di lavoratori di Partinico, circa mille, a riunirsi in gruppi per dimostrare pubblicamente il digiuno che erano soliti a effettuare nelle loro abitazioni per lo stato di miseria.
Infatti nella giornata del trenta gennaio, lunedì, queste mille persone di Trappeto, Partinico, Balestrate, si riunirono in gruppi nei loro rispettivi paesi e digiunarono per tutto il giorno.
In tale circostanza furono intervistati dai giornalisti italiani e stranieri, nonché da inviati speciali della Rai e della televisione. Devo dire che siccome questo facevo agli occhi di tutti e senza alcun nascondimento, la polizia, venuta alla conoscenza di ciò che intendevo fare, prima del trenta e precisamente il ventinove gennaio, mi diffidò a non organizzare manifestazioni non autorizzate.
Siccome sapevo che le due dimostrazioni che avevo in mente di attuare consistevano la prima in una giornata di digiuno collettivo e l’altra in una giornata di lavoro, accettai la diffida e la sottoscrissi, sicuro di mantenermi nei limiti della legge. Appunto per mantenermi nei limiti della legge ho evitato che in tali dimostrazioni si raffigurasse il posto del raduno, sfilando insieme e portando cartelli. Durante la giornata del trenta la polizia non ha potuto fare altro che constatare il civismo con cui coloro che accettavano di digiunare si comportavano durante la manifestazione, tanto che non ci fu alcun richiamo. Nei giorni successivi pensai, sempre al fine di evitare che la popolazione restasse inerte, di attuare quello che era il nostro programma e che avevamo esposto pubblicamente in diversi giornali editi nelle più svariate città d’Italia.
Il nostro programma era da tutti conosciuto a Partinico e quindi anche dalle varie organizzazioni sindacali. A queste manifestazioni, delle organizzazioni di destra ha partecipato la Uil, la Cgil per la sinistra.
A quella del giorno due doveva partecipare pure la Uil, ma all’ultimo momento ha rimandato, mentre ha preso parte la Camera del lavoro che la sera precedente ha tenuto una riunione nei suoi locali. Ci tengo a far presente, perché mi è giunta notizia di mercede che sarebbe stata promessa a coloro che si recavano a lavorare, che proprio in detta riunione il Termini Salvatore, segretario della Camera del lavoro, ha specificato a tutti i presenti di non attendersi compenso alcuno per il lavoro che si sarebbe andato ad effettuare.
Il mattino del due febbraio, secondo quanto si era stabilito, ci portammo a gruppetti sulla Trazzera Vecchia con lo scopo di lavorare tutti e ridare la praticabilità a quella strada, come era desiderio di tutti. Era da circa venti minuti iniziato il lavoro quando giunsero sul posto il tenente dei carabinieri e il commissario di P.S. assieme a pochi agenti e carabinieri. Il tenente dei carabinieri mi si avvicinò e mi disse di smettere di lavorare. Io ho continuato a lavorare senza rispondere al tenente che, urtatosi, mi ha preso la pala dalle mani e mi ha consegnato a tre agenti con i quali mi sono allontanato verso il paese. Dopo circa un chilometro e mezzo di strada, ci imbattemmo in un altro commissario di P.S., il quale credo si chiami Di Giorgi, che rivolgendosi agli agenti disse di lasciarmi in libertà.
Io, che mi ero accorto lungo la strada della presenza di numerosi altri agenti, alcuni con le trombe altri con sfollagente, ritenendo che gli uomini rimasti sulla trazzera potevano essere caricati dalla polizia, dissi al commissario che sarei tornato sul posto. Il commissario non fece alcuna obbiezione e io tornai sulla trazzera. Giunto colà vidi gli uomini quasi circondati da un gran numero di agenti, una parte degli uomini che erano più lontani lavoravano ancora, i più vicini stavano in piedi perché, spiego, era nel nostro programma, nel caso non ci avessero fatto lavorare, di restare fermi sul posto per otto ore, non solo per quel giorno, ma anche per i successivi. Insomma, io volevo che con questa dimostrazione le autorità si accorgessero delle condizioni di quella popolazione; per cui desideravo che le dimostrazioni avvenissero ma non urtassero contro le leggi.
Tornando sul posto ho visto che il commissario Di Giorgi parlava agli uomini dicendo di sciogliersi e di non restare ad ascoltare me, sobillatore.
Sentendomi così apostrofato, risposi che non ero tale perché il lavoro non è solo un diritto, ma per l’articolo 4 della Costituzione, un dovere: che sarebbe stato, era ovvio, un assassinio non garantire alle persone il lavoro, secondo lo spirito della Costituzione. Nego nella maniera più formale di aver rivolto frasi ingiuriose nei confronti della polizia e tanto meno la frase che, secondo quanto mi contestano, è stata riferita in verbale: “chi va contro i lavoratori è un assassino”. Mi preme precisare che fui proprio io, quando stava parlando il commissario, a ripetere ai presenti di comportarsi da perfetti gentiluomini, qualsiasi fosse stato l’atteggiamento della polizia. Avvertimento in tal senso era stato fatto in precedenza sia da parte mia che da parte di altri. Dopo queste mie osservazioni rivolte alla folla, il commissario mi disse di allontanarmi. Io volendo essere solidale con gli altri, invece di allontanarmi, mi sedetti per terra. A questo punto il commissario ordinò a cinque agenti di prendermi e trasportarmi sull’automezzo che era distante circa ottocento metri.
Gli agenti mi presero e, di peso, mi trasportarono sulla camionetta. Anzi preciso che, lungo il tragitto, dato che io sono pesante, mi riponevano sul terreno al fine di riposarsi e poi mi riprendevano; così per alcune volte. Dopo di me sulla stessa camionetta hanno trasportato Abbate Francesco e Speciale Ignazio. Degli altri non mi sono accorto.
D.R.[3] Né me né agli altri due che furono trasportati sulla camionetta, furono applicate le manette.
D.R. Escludo che io abbia vibrato qualche calcio agli agenti, perché in vita mia non ho mai dato un calcio a un uomo. Posso anche affermare che, fino a quando io sono stato sul posto, nessuno usò violenza o minacce nei confronti degli agenti.
D.R. Ammetto di avere insistito in presenza del commissario, che invitava i presenti ad allontanarsi, affinché restassero sul posto a lavorare.
D.R. Finché io fui trasportato all’automezzo, non ho sentito alcun squillo di tromba.
L’invito a scioglierci era venuto solo dalla bocca del commissario, ed è vero che, a un certo punto, qualcuno dei presenti si era allontanato.
Ripeto che era in me sicura la convinzione che nessun reato da noi si commetteva eseguendo un lavoro utile a tutti, anche se tale lavoro non era stato ordinato da alcuno.
Di coloro che furono arrestati mi risulta che il Termini è segretario della Camera del lavoro e consigliere comunale, degli altri non vi so dire di preciso che cariche rivestano
D.R. Escludo che alcuni di noi avessero avuto in mano una roncola, perché tutti erano stati da me diffidati a lasciare a casa anche il temperino che usavano per tagliare il pane, il che, d’altra parte, lo si può ricavare da specifiche dichiarazioni fatte alla stampa e dalla stampa pubblicate.
L.C.S.
(seguono le firme)
[1] Danilo Dolci, Ciò che ho imparato, a cura di Giuseppe Barone, Mesogea, 2008
[2] Danilo Dolci, Processo all’articolo 4, Sellerio editore, Palermo, 2011, pp. 58 – 65
[3] D.R: Domandato, risponde