Poesie

Danilo Dolci

Ricercari

« In un momento di saggezza, verso i venticinque anni, ho bruciato tutto, millecinquecento versi, allora li contavo. Ho tenuto solo le voci dei Ricercari, che – appuntate nel ’49-’50 nella silenziosa pianura dello Scrivia -, pur ancora letterarie, pervenivano ad un nodo essenziale: la coscienza che nella vita ciascuno è – può, deve essere – ostia agli altri. Mangiare è un dramma: cosmico. Accetto di mangiare per poter farmi mangiare.»

(Dalla premessa dell’autore a “Poema umano”, Einaudi 1974)

I

(due voci dell’autunno)

Anche agli spini torti nella polvere sotto la scorza che s’intenerisce ansia preme

di aprirsi a respirare umida luce quando il sole ritorna a intiepidire; su questa rossa terra

pur l’ortica di petali s’imbianca.

·  Tronchi di gelso tendono moncherini rimozzi; antiche piaghe incancreniscono; le cortecce scagliose

più non reggono l’anima di terra:

la carie affonda e svuota.

Tra poco i nomi, i cuori incisi attorno si sfaranno in un turbine di polvere. Tra poco anche alla terra

l’involucro tatuato dalla vita nostra, si disfarà.

Oltre il cioccame pendulo dagl’irti monconi dell’acacia

frullano in alto gridi controvento d’invisibili allodole.

Tra i filari le zolle cicatrizzano inverdendo di ciuffi mattutini.

·  Quando anche il gelso indolcisce

e vasta la messe squassa, nel secco fruscio già striscia il levigato sibilo

di una selce bagnata sul ferro.

Anche le stelle

biancoazzurre di notte da lontano hanno un’anima rutila

è oltre ogni nebbia di galassie.

Il nome che mi chiama non è il mio nessun nome è mio.

Questo corpo che presto è sazio e logoro e teme il dolore e si piega

e si aggruma stordito non è il mio.

Non sono nato ancora.

Sto per nascere sempre – e morirò.

II

(due voci, presaghe di primavera)

Va in alto un cirro: volto era di madre or ora, ed è un agnello che riposa.

·  Il fiume rallentando illimpidisce.

Come da bimbo

meravigliando dell’ignoto viaggio salutavo con la mia chiara mano ricolma d’aria

le bianche campanelle delle rive i fiori delle zucche, gialli gialli, verso nuove pianure silenziose nel sorriso sicuro di mio padre, l’addio.

·  All’altro lido

sempre albeggiano aperti bucaneve. Schiude il rosaio i petali dall’intimo

l’anima ai fiori è tumida di sole

si addensa il seme turgido. I glicini straripano.

III

(due voci nella prima estate)

Forse come di viole

sono le isole scure, la corrente acqueta nelle rade il suo tremore e il vento mugghia a tratti sottovoce, lontano.

È chiara l’aria ai facili

voli spiegati.

·  In odorose spume

si obliano le spine delle siepi.

Di silenziosi spazi nostalgia

mi muove ed erro smemorata, non sono che l’oscillare delle spighe d’erba,

ronzii dorati

trilli di voli altissimi.

La vite impallidisce in teneri aneliti nell’aria.

·  Quando Ti accarezzavo e gli occhi miei bevevano la luce del Tuo volto

Ti celavi più piccola e vicina.

A Te m’aduso come gli occhi a luce:

e pure la mia mano Ti ricerca lievi carezze arrischia.

·  Guarda i monti laggiù: lievi di cielo lontanando inazzurrano,

nubi pronte a levarsi dissolvendo

appena lo scirocco lento prema.

Il mondo trasfigura:

favola il dolore e la morte. Amore, nei Tuoi campi

fioriscono le acace anche d’autunno.

Tenta un alato la sua voce nuova;

soffici sono ai passi dei pulcini i tepidi sentieri.

La valle s’infoltisce di memorie:

inaspettati incontri, soste d’estasi.

Ricordi le vampe della lucciola nella buia conchiglia delle palme?

·  Mentre nell’acqua scivolava lieve ondulando l’aureola lunare,

svolò l’alata

nell‘alta notte morbida di baci.

Tacquero i grilli tacquero le rane sparve il fiume svanirono le stelle.

·  Ricolmi di vergine vita nuovi eravamo. Sull’arena di polline

IV

(due voci, quando torna autunno)

Il nome, a lei, un’alba

quando plana la rondine ed aleggia ebbra di volo limpido

a intiepidire il suo deserto nido.

A lui, il nome, un aperto mattino

quando il vomere curvo imbruna i campi.

·  Dirama al delta il fiume:

tutto si tende, torna tutto al mare.

Le nostre mani avranno i nostri figli ci riconosceremo nei loro occhi

nei loro volti.

Se il cielo abbevera l’arsa collina cresce il chicco, la buccia si assottiglia e quasi fino a fendersi traspare.

Com’è gustosa la pannocchia tenera abbrustolita dietro la siepaia

su bianche selci lisce,

mirando gli improvvisi

buchi di rade gocce nelle amache elastiche dei ragni.

·  Tese le antenne della cavalletta interrogano l’aria forse ancora cercando il crepitare dell’ariste.

Per le ramaglie vizze il cielo penetra ora e lo sguardo affonda più lontano nei campi nudi; il verde si fa terra

muta. Quante voci

da noi inascoltate, in quanto schiudersi di gemme non ci siamo conosciuti.

Bacche rosse fra sterpi aggrovigliati di rustici roseti sopra cardi

e stoppie inaridite, il nostro autunno. Ma il buio è buono al passo di chi torna

dall‘operoso giorno.

Ampio spazio respirano le ombre.

Tutto sarà tra poco mare rosso mare di carne tribolata, e docile.

Quando sciaborderà l’oceano bianco contro i muri di pietra ben connessa, dolce sarà lo scroscio dei ghiaccioli

a noi turbati

nella tepida attesa delle rondini.

·  La luce chiama l’ostia.

Quando al vento nuovo

langue l’ultima neve, abbrividisce

il sonno indifferente dei grandi alberi.

·  È luce l’ostia, che ritorna luce.

Acri fumate gemono

radici vane abbarbicano l’aria.

Fra terra e cielo vibreranno in alto sopra l’umido strame delle foglie baccelli appesi a scheletri mondati.

Se lo sguardo accarezza il neonato grano, il soffice sento

tepore dei capelli d’un bambino;

ha un pallore di puerpera, la piana.

·  Mentre cerchiamo tra le nebbie sbocciano crisantemi.

Non è ricolmo il numero dell’ostie.